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2002 - Olimpia abbandonata da Bireno (1636-1640)

Un dono, un ricordo

 

Nello scorso mese di ottobre è prematuramente scomparsa Daniela Salvatori Guidi Bruscoli, socia da lungo tempo del nostro sodalizio e mia amica carissima. All’arte Daniela si era dedicata per tutta la vita e da angolature diverse, giungendo negli ultimi anni a focalizzare i propri interessi soprattutto sul Novecento. Importante è stato il suo impegno educativo nella scuola, e incisivo il ruolo da Lei svolto nel Consiglio di Amministrazione del ‘Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci’ di Prato del quale fu tra i soci fondatori. Sono preziosi strumenti di lavoro i due volumi, da Lei curati coordinando un gruppo di giovani studiosi, che restituiscono con chiara sistematicità il panorama dell’arte del Novecento a Firenze e nella provincia; e resta viva testimonianza del suo impegno intellettuale quel programma di incontri tra artisti e poeti da Lei avviato nella saletta di via del Porcellana. Oggi, Fabrizio e Francesco Guidi Bruscoli vogliono ricordarla donando agli Uffizi, museo da Lei molto amato, un importante dipinto di un autore finora assente nella nostra collezione. È un gesto bello e generoso, che sono certa piacerà a Daniela e per il quale dobbiamo essere loro molto grati. Annamaria Petrioli Tofani   

 
L’ingresso della grande tela agli Uffizi è, e resterà per sempre, legato alla memoria di Daniela Guidi Bruscoli, come Annamaria Petrioli ha ricordato sopra con dolente testimonianza di affetto. Alla sottoscritta, in quanto direttore del Dipartimento di pittura che l’opera viene ad arricchire, tocca invece il compito di illustrarla: compito più asettico, ma certamente non disgiunto da quell’umana partecipazione che l’occasione ispira. Si tratta di un dipinto a olio su tela (cm 170 x 227) che nel 1986, in occasione della mostra del Seicento fiorentino tenutasi a Palazzo Strozzi, Silvia Mascalchi ha incluso su basi documentarie nella produzione di Vincenzo Mannozzi (Firenze 1600-1658), un pittore le cui vicende sono scarsamente documentate ma che possiamo inserire pienamente sia nell’ambiente artistico fiorentino che nell’entourage della famiglia granducale del tempo. È infatti suffragata dalle fonti, almeno dal 1631, la sua attività come pittore e cortigiano al servizio di don Lorenzo de’ Medici, per il quale risulta anche avere procacciato dipinti (S.Mascalchi, in Il Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III. Biografie, Firenze 1986, pp.111-112). Questi aveva come suo soggiorno di elezione la villa della Petraia, frequentata da diversi artisti come Francesco Furini, Stefano della Bella, il Volterrano, Cesare Dandini, la cui vicinanza contribuì certamente alla sviluppo artistico del Mannozzi, che il biografo Baldinucci dice appunto allievo del Furini. Alla morte del Medici, ben quattro dipinti di Vincenzo erano citati alla Petraia, due dei quali di soggetto ariostesco; ma altre tele risultano eseguite dall’artista per Vittoria della Rovere, per Leopoldo e, cosa che qui più ci interessa, per Giovan Carlo de’ Medici. Il dipinto in esame risulta infatti l’unico superstite di tre citati nell’inventario del 1646 del palazzo di via della Scala, residenza di Giovan Carlo: anche solo da questo dato storico si può dedurre l’importanza di questo rientro nell’ambito delle collezioni della Galleria. Coinvolto come “sviscerato buon servitore” (cit. in Mascalchi, p.111) nelle operazioni culturali promosse dalla corte medicea, Vincenzo dovette in quest’ambito contribuire al revival ariostesco e tassesco a Firenze, fornendo alcuni preziosi e raffinati testi figurativi tra i quali figura appunto il dipinto entrato oggi in Galleria, databile tra il 1636 e il 1640: esso illustra infatti l’episodio dell’Orlando Furioso (X, 21) in cui Olimpia destatasi scopre che il suo amante Bireno non è più accanto a lei. (vedi anche R. Maffei, in L’arme e gli amori, catalogo della mostra, Firenze 2001, p.206). L’impostazione drammatica risulta evidente nella composizione, accentuata anche dal grande formato che l’artista sembra aver prediletto: vi riecheggiano artifici teatrali usati anche da altri artisti in analoghe scene di origine letteraria o biblica, valga per tutte “Il casto Giuseppe” del Bilivert (Galleria Palatina). Un artista, quest’ultimo, di cui il Mannozzi risulta debitore quasi quanto lo è del Furini; passando infatti dal grande impianto scenico, dalla drammaturgia dilatata dei gesti ai particolari del dipinto, colpisce soprattutto la natura morta di conchiglie, l’accurata resa dei tessuti che possono ricordare l’eleganza di dettaglio tipica del Bilivert. Mentre ad altre fonti può essere ricondotta la marina in tempesta, memore di analoghi soggetti trattati con disinvolto specialismo dai franco-fiamminghi Monsù Montagna e Plattenberg, presenti pure con diverse opere nelle collezioni fiorentine. 
 

Caterina Caneva